San Daniele Profeta 21 luglio
Daniele, l'ultimo
dei quattro profeti detti maggiori, giudeo, nato probabilmente a
Gerusalemme da famiglia nobile, forse imparentata coi re di Giuda, fu
deportato a Babilonia da Nabucodonosor, insieme con altri giovani
dello stesso rango sociale, nell'anno terzo o quarto di Ioakin, re di
Giuda, cioè il 606-605 a.C.
A Babilonia fu scelto con altri
tre giovani nobili giudei (Anania, Azaria e Misaele) per essere
ammesso, dopo una conveniente preparazione di tre anni nella lingua e
negli usi dei Caldei, alla corte del re, per assolvere incarichi
ufficiali onorifici. Secondo l'uso, fu loro cambiato il nome: a
Daniele, che poteva avere allora dai quindici ai venti anni, si diede
quello di Baltassar. Con i suoi compagni fu presentato al re al quale
fece ottima impressione, non solo per la sua prestanza fisica
(conservata malgrado l'astinenza dal vino, dalla carne, e da altri
cibi prelibati che gli venivano offerti dalla mensa del re e che
egli, per amore della Legge, gentilmente rifiutava), ma soprattutto
per le doti di spirito che in lui il re poté ammirare quando,
avendolo esaminato, trovò scienza e intelligenza dieci volte
superiori a quelle di tutti i suoi magi e indovini (Dan. 1, 20).
Ammesso pertanto alla corte, dopo che ebbe dato saggi non
equivocabili, anzi, sbalorditivi, della sua rettitudine, fu fatto
principe di Babilonia e prefetto su tutti i sapienti del regno;
dietro sua richiesta, anche i compagni (Anania, Azaria e Misaele)
ebbero posti onorevoli e cariche di responsabilità nella
provincia, mentre egli rimaneva a palazzo presso il re (Dan. 2,
46-49).
Il primo saggio della sua probità e saggezza sembra
sia stato dato da Daniele nella causa di Susanna: ella fu sottratta
alla morte a cui era stata ingiustamente condannata, e la sentenza si
ritorse contro i due giudici disonesti dopo che essi erano stati
convinti pubblicamente da Daniele della loro falsa testimonianza
contro l'innocente. Daniele è presentato in questo episodio in
giovane età (Dan. 13, 45), circostanza che rende tanto più
ammirevole la sua maturità di giudizio, in contrasto con la
fatuità e corruzione dei due giudici anziani. Come questo suo
intervento nel caso di Susanna gli acquistò fama presso il suo
popolo, cioè gli esuli giudei, il cui numero era nel frattempo
aumentato con la seconda deportazione del 598, così
l'interpretazione del sogno di Nabucodonosor sulla grande statua
plurimetallica, abbattuta dalla piccola pietra staccatasi dal monte,
lo rese celebre tra i babilonesi e onorato della piena fiducia del re
tra i principi della corte. Il Dio d'Israele è glorificato
come Dio sommo, che solo ha la sapienza delle cose occulte e la
comunica ai suoi servi fedeli, come Daniele (Dan. 2, 47).
Era
l'anno dodicesimo di Nabucodonosor (=593), quando Daniele, allora tra
i ventisette e i trent'anni, si affermò quale oracolo di Dio,
favorito dalla scienza dei segreti, superiore di gran lunga a quella
di tutti i magi, indovini, saggi e caldei di Babilonia. Egli non fu
coinvolto nell'accusa dei babilonesi mossa contro i suoi tre
compagni, Anania, Misaele e Azaria, per non aver voluto adorare la
statua del re, ma la pena della fornace ardente, loro inflitta,
dovette affliggerlo grandemente, vedendo che quello stesso ufficio
onorifico di prefetto della provincia di Babilonia, concesso loro dal
re per sua mediazione (Dan. 2, 49), era stato occasione di disgrazia:
tuttavia l'esito felice di quella prova mutò la tristezza in
gaudio e poiché i suoi compagni, scampati al fuoco, riebbero
le loro cariche (Dan. 3, 97), il Dio di Israele fu riconosciuto con
regio decreto come l'unico Dio vero, capace di salvare coloro che
credono in lui (Dan. 3, 96).
Pochi anni dopo Daniele interpretò
un altro sogno di Nabucodonosor, quello del grande albero rigoglioso,
abbattuto e reciso, che risorse dalle radici con la magnificenza di
prima. Daniele, chiamato dal re, gli spiegò il senso di quel
sogno, invano cercato dai sapienti: l'albero è simbolo dello
stesso re, che per la sua superbia sarà privato della gloria
regia e ridotto allo stato umiliante di una bestia fino a che non
riconoscerà che l'Altissimo detiene il dominio sul regno degli
uomini e lo dà a chi vuole (Dan. 4, 21 sg.). Per mitigare
alquanto questo annunzio così severo e terrificante Daniele,
da buon amico, consiglia al re di procacciarsi la divina clemenza con
opere buone e con la pietà verso i poveri (Dan. 4, 24).
Nuova
prova dello spirito di sapienza ricevuto da Dio la diede Daniele
nello svelare il senso delle enigmatiche parole Mane' Thecel, Phares
nella cena di Baltassar, il quale nella lunga assenza di suo padre
Nabonide, ne teneva le veci a Babilonia: questa cena di gala con
tutti i principi e dignitari di corte, con le mogli e concubine, era
un affronto alla religione dei giudei, in quanto in essa si faceva
uso dei vasi sacri del Tempio di Gerusalemme. L'orgia si arrestò,
però, alla vista della mano misteriosa che scriveva sul muro
segni ignoti. I sapienti, magi e indovini, chiamati dal re, non
furono capaci di decifrare la scrittura. Allora, su consiglio della
regina, fu introdotto Daniele, che dopo aver rifiutato i sommi onori
e i regali che il re gli prometteva, lesse e interpretò le
fatidiche parole, che contenevano la sentenza di Dio sulla fine di
Baltassar e del suo impero, sentenza che si compì quella
stessa notte, subentrando l'impero persiano a quello babilonese
(538).
Le visioni profetiche, sia quelle coi tratti apocalittici
di bestie simboliche, raffiguranti i diversi regni della terra fino
all'avvento del Regno di Dio (cap . 7-8), il cui tempo è
approssimativamente indicato (cap. 9), sia quelle che, senza simboli,
parlano direttamente degli stessi regni e dei loro re, senza però
nominarli (cap . 10-11), e quella ultima che annunzia la fine dei
tempi (cap 12), sono tutte messe in bocca a Daniele che parla in
prima persona e riceve da un angelo (Gabriele) la spiegazione delle
visioni avute.
Per muovere Dio a clemenza, Daniele affligge se
stesso col digiuno. indossa gli abiti di penitenza e confessa i
peccáti suoi e quelli del popolo, riconoscendo la giustizia di
Dio in tutto quel che si patisce. Implora misericordia, pregando Dio
di affrettare il suo aiuto, per amore del suo santuario, che da tanto
tempo è desolato, e per riguardo a se stesso, fedele alle sue
promesse. In risposta alla sua accorata preghiera, Dio gli manda
l'angelo Gabriele con un messaggio di consolazione.
Daniele,
sopravvissuto al crollo dell'impero neo-babilonese (539-38), vide
ancora i primi anni del nuovo impero persiano: la sua ultima visione
è datata dall'anno terzo di Ciro (536), quando egli, nato
verso il 620, era già più che ottantenne. I Greci,
presso i quali la festa è al 17 dicembre, lo ricordano insieme
con altri santi dell'Antico Testamento la domenica precedente al
Natale.